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RASSEGNA STAMPA

n. 1164 del 12/06/2007

IL DISCREDITO DELLA POLITICA di Angelo Panebianco

La seconda Repubblica è stata solo una promessa

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Ciò che più impressiona delle reazioni negative di tanti uomini politici alla spietata e documentata analisi-denuncia del presidente di Confindustria è che nessuno, dico nessuno, di quei critici è stato capace di contestare nel merito anche una singola virgola di quanto Montezemolo ha sostenuto. Nessuno, fra i professionisti della politica, è in grado di negare che la politica, e il sistema pubblico che da essa dipende, siano ormai un motore ingrippato, e la principale causa dei mali italiani.

In quella che alcuni chiamano «crisi della politica» va distinto l'aspetto congiunturale da quello strutturale. C'è una crisi specifica, contingente, legata alla natura della coalizione oggi al governo. Una parte della paralisi decisionale che ci attanaglia dipende dalla debolezza della maggioranza e, in particolare, dal suo vero fallimento: l'incapacità di «costituzionalizzare le estreme». Nessuna democrazia bipolare può funzionare se le estreme non vengono addomesticate e controllate, se hanno un ruolo rilevante nelle politiche di governo. È dalla nascita del governo Prodi che le estreme, non addomesticate, hanno quel ruolo. Con effetti devastanti per i consensi all'esecutivo. La mancata costituzionalizzazione delle estreme ha ricadute su tutti gli aspetti delle politiche pubbliche, si tratti del blocco di infrastrutture vitali, di tasse e spesa pubblica, della sicurezza, o della politica internazionale del Paese. Si pensi a ciò che accadrà fra pochi giorni: l'estrema sinistra riceverà, come componente del governo, il presidente degli Stati Uniti, partecipando contemporaneamente a una manifestazione contro di lui.

L'aspetto congiunturale della crisi si incontra con l'aspetto strutturale, perché una politica paralizzata dalla mancata costituzionalizzazione delle estreme infligge un colpo mortale alla democrazia bipolare, porta acqua alle tesi di coloro che (a loro volta sbagliando, a causa di una memoria troppo corta) pensano che un sistema «bloccato al centro», un sistema con un nuovo centro eternamente governante sia la soluzione per i mali italiani.

Aspetti congiunturali a parte, c'è dunque una crisi di sistema: dipende dal fatto che la Seconda Repubblica non è mai nata, è stata solo una promessa o un miraggio che ci ha accompagnato dai primi anni Novanta, e adesso che la promessa è svanita ci ritroviamo ancora a vagare fra le macerie della Prima Repubblica, senza che siano in vista soluzioni. Gran parte dei mali attuali della politica sono segni di una crisi di sistema a cui nemmeno un nuovo ricambio di governo, checché ne dicano le opposizioni, potrà porre veri rimedi.

Sappiamo qualcosa su come e quando cambiano le democrazie. Sappiamo che esse non cambiano solo perché sono in crisi: possono restare in quella condizione per decenni, immobili, mentre trascinano lentamente alla rovina il Paese. Le democrazie cambiano solo quando (di solito, a seguito di una crisi repentina e drammatica) si apre, per un breve momento, una «finestra di opportunità», e appaiono leader capaci di imporre una radicale ristrutturazione delle regole del gioco. La fine del «primo sistema politico» della Repubblica avvenne per il combinato disposto di un mutamento geo-politico (la fine della guerra fredda), una crisi finanziaria, e l'intervento della magistratura. Avemmo una mezza Algeria ma senza un de Gaulle, senza incontrare un leader davvero all'altezza della situazione.

Si aprì comunque una finestra di opportunità che consentì alcune limitate innovazioni, come la legge maggioritaria del 1993, le leggi sull'elezione diretta di sindaci e presidenti regionali e l'alternanza al governo. Quella finestra di opportunità si è chiusa da un pezzo. Non ne sortì quella riforma complessiva delle istituzioni che avrebbe dovuto fare dell'Italia un'efficiente democrazia bipolare. E quando i partiti ebbero modo di riorganizzarsi tornammo addirittura indietro (con la riforma elettorale voluta dal governo Berlusconi).

Berlusconi, appunto. Di lui si deve parlare, essendo stato il vero dominus, nel bene e nel male, della politica italiana dal '94 ad oggi e, ci dicono i sondaggi, lo sarà ancora a lungo.

Berlusconi non è l'uomo nero che molti si ostinano a dipingere e ha fatto, insieme a cose sbagliate, e anche sbagliatissime, anche diverse cose buone. Il suo vero grande limite è che fece al Paese la promessa di una rivoluzione liberale e non l'ha mantenuta. Credo che stia proprio in quel fallimento la causa della crisi di sistema. Berlusconi ha avuto, per un momento, l'occasione di dare uno sbocco positivo alla crisi della Prima Repubblica ma l'ha in grande misura sprecata. Non è stato né de Gaulle (il costruttore di nuove istituzioni) né Thatcher (l'artefice di una rivoluzione neo-liberale). Per questo ora ci ritroviamo, dopo un lungo giro, di nuovo al punto di partenza, alla crisi di sistema così come l'abbiamo conosciuta alla fine degli anni Ottanta. Né sembra che Berlusconi ne abbia tratto insegnamento. È vero che è il «popolo», e non la Confindustria o i tecnici, che deve scegliere i governi, ma sono le élite che devono trovare le soluzioni politiche tecnicamente valide per dare soddisfazione alle aspirazioni del popolo. Uno dei problemi del governo Berlusconi fu che mancarono soluzioni tecnicamente adeguate per realizzare, su diversi fronti, la promessa rivoluzione liberale.

Non ci sono buone notizie in vista (a parte il referendum, ma non basta). Non si vedono all'orizzonte nuove «finestre di opportunità». Anche per questo il tanto parlare che ancora si fa di riforme costituzionali sa di imbroglio. Un Paese che discute da più di vent'anni di tali riforme e non le fa è un Paese malato. E la sua è una malattia morale.

Nella classe politica, a sinistra e a destra, ci sono diverse personalità di prim'ordine. Esse ingiustamente patiscono del discredito in cui è caduta la politica. Nessuna di loro, singolarmente, può fare nulla per risolvere la crisi. Ma è forse tempo che i migliori delle due parti si siedano intorno a un tavolo per tentare di capire che cosa è umanamente possibile fare al fine di bloccare il degrado della democrazia italiana.


Corriere della Sera, 27.5.2007


Paolo Tagliaro © 2003/04 - Tutti i diritti sono riservati