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RASSEGNA STAMPA

n. 1570 del 28/07/2008

GLI SCENARI DELLO SCANDALO

Un'inchiesta in cui anche magistratura e informazione hanno dimostrato debolezze - Un dossieraggio frutto della guerra tra blocchi di potere

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Si sente dire spesso che in quei luoghi, in quelle istituzioni, in quei paesi dove non soffia alcun venticello di critica pubblica, cresce come un fungo una corruzione senza colpa.

Non c'è dubbio che l'informazione sia e debba essere, per mestiere e dovere, un alimento di critica pubblica. C'è il giornalismo che pretende di ricostruire la verità. C'è un altro giornalismo che sa di non poter afferrare con una presa sicura l'intera storia che racconta. E' un giornalismo consapevole di un limite e accetta di lavorare a una continua approssimazione della verità, cosciente che non saprà mai davvero che cos'è la verità, ma saprà che cos'è la menzogna. La indicherà ai suoi lettori. Vi si opporrà, per quel che poco o molto che è in grado di fare. E potrà ripetere ai pochi o ai molti che gli concedono ogni giorno fiducia: "Non vi abbiamo mentito".

Avremmo mentito ai nostri lettori se avessimo accettato le conclusioni minimaliste dell'affaire Telecom. In questi giorni si è andata disegnando, da più parti e anche con voci autorevoli, una scena capovolta, fuori da ogni cardine. Scomparivano i protagonisti e i comprimari, le loro condotte e responsabilità, la lunga scia di illegalità, abusi e ricatti. Come d'incanto, soltanto distrattamente si ricordava al lettore (e c'è chi non ha fatto nemmeno questo) che, nella maggiore società di telecomunicazioni del Paese, la Telecom Italia di Marco Tronchetti Provera, sono stati raccolti migliaia di dossier illegali in collaborazione con l'intelligence italiana, in violazione di ogni privacy con finalità ancora tutta da chiarire.

In occasione della conclusione delle indagini, l'imputazione di una responsabilità oggettiva di Pirelli e Telecom in capo al suo presidente (Tronchetti) e amministratore delegato (Buora) è apparsa diventare, a leggere alcuni commenti e bizzarre dichiarazioni, un'assoluzione piena: un esito da esibire come un fiore all'occhiello. Per farlo, bisognava lavorare a una cosmesi dei fatti.

Un annuncio di fine indagine è stato presentato come un proscioglimento definitivo come se si trattasse di una sentenza assolutoria e conclusiva, prima di leggere la richiesta di rinvio a giudizio che ancora non c'è e la decisione del giudice dell'udienza preliminare che un giorno verrà.

Si è scritto che Tronchetti è stato "scagionato". Il primo a crederci è stato il presidente di Pirelli. Si è detto "contento e molto soddisfatto perché è emersa con chiarezza la verità". La verità provvisoria è che due società Pirelli e Telecom (con Tronchetti legale rappresentante) non hanno impedito ai propri dipendenti di commettere reati nell'interesse delle società. Tronchetti non avverte la responsabilità di quella omissione. Non crede di dover chiedere almeno scusa, con umiltà, agli spiati o almeno agli azionisti Telecom: già provati dalla sua gestione, dovranno presto mettere mano al portafoglio per pagare centinaia di miliardi di risarcimento alle vittime dello spionaggio fiorito per la trascuratezza di un presidente e di un amministratore delegato.

Non è nemmeno il peggio. Il peggio è l'acquerello a tinte tenui che vuole rappresentare l'affaire. Tre amici d'infanzia (Tavaroli, Mancini, Cipriani) fanno carriera partendo dal fondo della scala. Conquistano la potente e ricca security della Telecom (Tavaroli), il controspionaggio militare (Mancini), un'importante agenzia d'investigazione (Cipriani). Incrociano le informazioni in loro possesso. Formano dossier spionistici in libertà con le risorse della Telecom e dello Stato. Lucrano profitti e potere personali. Fine dell'affaire.

Avremmo mentito se avessimo accettato senza un dubbio, senza un interrogativo questo tableau piccino, semplificatorio. E non per un pregiudizio sfavorevole alla Telecom o a Tronchetti Provera. Ma per quel che già si è potuto leggere nelle cinque ordinanze dei giudici milanesi.

La security di Tavaroli disponeva di risorse finanziarie senza limiti, alimentate in parte dal "fondo personale" del presidente. Nessun controllo aziendale di audit. Dipendenza diretta dal presidente. Quattro diversi "sistemi" capaci di rubare informazioni riservate senza lasciare traccia. Una piattaforma di hackeraggio ("zone H") nei paesi dell'Est, utilizzata per intrusioni informatiche, finanziata dalla Telecom e posta in bilancio come "investimento per immobilizzazione materiale" (poteva dare benefici a lungo termine). Una rete di pubblici ufficiali sparsi su tutto il territorio nazionale, ""sensori" per ogni indagine o accertamento che potesse interessare la Telecom-Pirelli". Collegamenti con l'intelligence francese, inglese, americana, israeliana e naturalmente italiana. Una pericolosissima "macchina da guerra".

In due occasioni, il giudice per le indagini preliminari Giuseppe Gennari ne indica esplicitamente il beneficiario. Ordinanza 18 gennaio 2006, pag. 188: "... che Tavaroli gestisse pratiche di questo genere nel suo singolare interesse è altamente improbabile. Ci troviamo di fronte a una gravissima intromissione nella vita privata delle persone e a un tentativo di captazione occulta di dati e notizie riservate, mossa da logiche puramente partigiane, nella contrapposizione tra blocchi di potere economico e finanziario. Logiche che tendono a beneficiare non già l'azienda come tale, ma colui che, in un dato momento storico, ne è il proprietario di controllo". Ordinanza 20 marzo 2007, pag. 168: "Osserviamo anche il riemergere di una tipologia di investigazioni che, in modo difficilmente revocabile in dubbio, rispondevano a esigenze dei vertici e della proprietà aziendale".

La convinzione del giudice quasi imponeva a un autonomo lavoro giornalistico di cercare Giuliano Tavaroli. Di chiedergli un colloquio. Di raccogliere la sua versione dei fatti. Era il diavolo. Era descritto come l'artefice e il conduttore di quella "macchina da guerra". Si diceva che avesse lavorato nel suo esclusivo interesse gabbando il suo padrone. Che cosa aveva da dire? Qual era la sua verità? E questa verità non era, pur nella sua parzialità, di interesse pubblico in un affaire dove tutti avevano avuto possibilità di accusare o difendersi e che aveva provocato anche un decreto di legge del governo approvato dalle Camere (la distruzione dei dossier raccolti illegalmente)?

Sono queste le ragioni che hanno convinto Repubblica a pubblicare l'ampio resoconto dei colloqui con Giuliano Tavaroli.

Abbiamo ritenuto che l'inedita ed esclusiva ricostruzione del principale indagato (anche con le possibili manipolazioni di cui abbiamo avvertito il lettore) potesse dare al quadro un tassello in più e una profondità, una concretezza, un profilo che le anticipazioni giudiziarie annunciavano piatto, senza asperità, quasi neutro con la storia assai poco credibile dei "tre amici intraprendenti". Comprendiamo l'irritazione di chi, proclamandosi estraneo a quei fatti, ne è stato coinvolto. Ma oggi abbiamo sotto gli occhi, con i nomi, i cognomi, qualche circostanza e dettaglio, quella "contrapposizione tra blocchi di potere" già intuita dal giudice nel gennaio del 2006. Vi affiorano figure che decidono della cosa pubblica senza alcuna responsabilità istituzionale; una filiera di immarcescibili massoni che lo scandalo della P2 non ha eliminato dalla scena; comportamenti obliqui di governanti; ricatti; corruzione piccola e grande; debolezze della magistratura, dell'informazione, delle amministrazioni dello Stato e, al centro, una sorda lotta per il potere che non si fa mai trasparente.

Non ci appare la verità. Ci appare uno scenario più vicino alla realtà dello scandalo Telecom. (Giuseppe D'Avanzo)


La Repubblica, 23.7.2008


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