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EDITORIALI E COMUNICATI

n. 9 del 18/10/2004

INVESTIAMO SUI GIOVANI, INVESTIAMO SUL FUTURO!

Cercando d’utilizzare una prospettiva il più possibile universale, ritengo sia necessario gettare le basi per un’analisi complessiva della realtà veneta e, in maniera comparativa, della penetrazione dei nostri organismi e della linea politica da essi incarnata nei vari strati ed articolazioni della società.

Una volta assodato che quello attuale, pur mantenendo peculiarità tali da renderlo un fenomeno difficilmente ripetibile, non è certamente il mitico nord est della seconda metà degli anni 90, dobbiamo concentrare la nostra attenzione su un panorama economico che vede il così detto “sistema veneto”, caratterizzato da imprese medio piccole ed a conduzione famigliare o semi/famigliare, attraversare un momento se non di crisi, almeno di stagnazione, sia per quando riguarda il momento contingente sia a livello di prospettive future.

Stagnazione provocata, secondo me, dall’azione combinata di molteplici fattori, sia interni, come il dispiegamento a livello regionale, d’una politica industriale, laddove esistente, interamente tesa a favorire i grandi gruppi nazionali e non, a scapito del sistema produttivo locale, sia esterni, si vedano ad esempio le sempre più diffuse pratiche di delocalizzazione degli impianti usate anche come forma di pressione e di minaccia nei confronti della classe lavoratrice, della compagine sindacale e delle istituzioni. Pratiche che dove attuate, si veda in proposito l’esempio della De Longhi nel bellunese, lasciano dietro di loro un territorio senza più prospettive di riconversione ambientale, né per le popolazioni locali, lavorativa.

Non ti stupire se ho deciso d’iniziare questa sorta di memorandum con considerazioni economiche di carattere generale come queste, l’ho fatto perché le ritengo un ottimo terreno sul quale si possono agevolmente innestare analoghe considerazioni critiche su tutte le altre questioni che, ritengo, debbano essere affrontate per poter fornire un quadro, modesto ma il più possibile completo, d’una realtà complessa come la nostra.

Questioni quali:

1. La sempre maggiore incidenza del precariato tra i nostri giovani, e i suoi effetti sociali.

2. La nascita e la crescita negli ultimi anni d’uno strato di manodopera ultra quarantacinquenne declassificata e paradossalmente troppo vecchia per rientrare al lavoro e troppo giovane per la pensione

3. Il crescente ruolo della componente extra comunitaria nella composizione della nostra forza lavoro, le ragioni che rendono necessario l’utilizzo di manodopera straniera e le problematiche poste dall’inevitabile e necessaria integrazione e dalla necessità di governarla. Pena la creazione d’una bomba ad orologeria il cui scoppio potrebbe avere conseguenze non prevedibili

4. Il progressivo decadimento culturale e politico dei nostri giovani. Se è vero, infatti, che aumentano le immatricolazioni nei nostri atenei, è anche vero che il livello di preparazione cala, con una forte incidenza del fenomeno dell’abbandono precoce degli studi, ed il fermento civile pur così presente nelle giovani generazioni, non è da noi incanalato adeguatamente, apparendo all’esterno, ma appariamo?, come un gruppo caratterizzato da un impronta ancora troppo elitaria e poco aperta verso i problemi che interessano i più giovani, come il problema di capire, governare e veicolare la globalizzazione e la rinascita d’un forte sentimento di rifiuto contemporaneo del terrorismo e delle politiche neo conservatrici.

5. La rivalutazione delle singole potenzialità locali con un analisi capace d’unire ad una visione generale, un piano di riflessione parallelo nel quale siano valorizzate le differenze tra le diverse realtà ed i vari ambienti (città e provincia, montagna o pianura ad esempio), in cui il nostro movimento, se vuole poter dire la sua, in quanto forza rappresentativa d’uno strato di società finora privo di voce, deve radicarsi.

Sicuramente quello che ci si pone davanti non è un compito facile, ma è proprio su questi temi che si giocano e si giocheranno le sfide del domani, proprio su questi terreni la questione morale, da sempre nostra bandiera, potrà e dovrà trovare il modo di concretizzarsi ulteriormente, inserendosi, non solo e non tanto nel agone politico, o almeno non subito, quanto piuttosto nelle stesse articolazioni vitali, nei gangli di trasmissione della società civile.

Una volta poste le questioni fondamentali, vorrei con il tuo permesso, partire da questa sorta di confini ideali per addentrarmi nell’analisi d’ogni singolo punto, iniziando proprio dal precariato e dalla sua incidenza sociale.

Lo vorrei fare partendo da una semplice domanda: cos’è esattamente il così detto “precariato”, perché è nato, ed a cosa serve?

Le risposte potrebbero essere molte, ma tra le tante credo che la più rispondente alla realtà sia la seguente: il precariato, inteso nella sua aberrazione è il frutto del cattivo uso fatto in questi anni di strumenti di per se buoni, nonché utili e necessari, quali i vari strumenti di flessibilità come il lavoro interinale, i contratti a termine nelle loro varie forme ecc.

Tutti strumenti, come dicevo, in se stessi utili quando non necessari in un epoca di produzione localizzata e di forte interdipendenza economica come la nostra, dove i ritmi ed i rapporti di produzione sono soggetti, molto più d’un tempo all’azione di variabili non pienamente prevedibili nella loro evoluzione.

Il problema sta appunto nell’uso che di questi è stato ed è fatto.

Un uso che gli ha portati a divenire propagatori d’insicurezza sociale e nel tempo, causa d’acuti e profondi conflitti sociali, gli ha portati insomma a vedere, almeno in parte, travisati gli scopi originali che gli hanno ispirati, ovvero la possibilità d’un ingresso graduale e flessibile nel mondo del lavoro per i giovani appena usciti dai banchi di scuola e la creazione d’uno strumento occupazionale capace d’integrare, proprio perché flessibile, le esigenze imprenditoriali con la vita del lavoratore.

A questa degenerazione, io credo, sia necessario opporre una politica che si prefigga la difesa dei di diritti dei lavoratori, vedi art. 18, e la loro estensione ai lavoratori di tipo nuovo.

Non quindi, come vorrebbero le destre, una guerra tra generazioni da usare come cavallo di Troia per cancellare con un tratto di penna le conquiste di anni, ma una rimodulazione delle tutele che sappia adattarsi all’oggi senza dimenticare i sacrifici di ieri, e questo perché la dignità non conosce età.

Al polo estremo poi, e qui mi collego al punto due, si è creato in questi anni una nuova categoria sociale, quella che potremmo definire “degli esclusi” costituita da lavoratori vittime delle tanti ristrutturazioni industriali, declassificati professionalmente e contemporaneamente così ricchi d’esperienza.

A queste persone io credo, soprattutto dopo il fallimento su questo fronte della legge 30, vada rivolto lo sguardo, a questi lavoratori delusi da una politica senza morale e da uomini che gli hanno dimenticati.

Guardare verso costoro significa proporre la promozione di politiche per una formazione continua che coniughi la preziosa esperienza accumulata negli anni ai nuovi orizzonti del mercato.

So già cosa stai per dirmi, esistono già ora moltissime possibilità di questo tipo, come ad esempio i corsi finanziati dal fondo sociale europeo, è vero ma quanti vincolo d’età e d’argomento per non dire altro, gravano su queste iniziative? Iniziative quasi sempre preluse “de facto” a chi ha una non più giovane età anagrafica ed è stato costretto dalle contingenze della vita a lasciare la sua istruzione ad un livello medio basso.

Ciò che serve non è una politica di riqualificazione qualsiasi ma piuttosto una politica ad hoc per questa tipologia di lavoratori, fatta non soltanto per paura delle sanzioni europee come ora, ma solo un rilancio della concertazioni tra istituzioni e parti sociali capace di riportare questa situazione al centro del dibattito pubblico.

Rilanciare questa concertazione, ecco quello che dovrebbe essere il nostro compito.

Altro tratto caratteristico della nostra realtà regionale è l’alta presenza d’elementi extra comunitari, in particolar modo nord africani ed europei dell’est tra la nostra forza lavoro, e le conseguenti questioni poste dalla necessità di raggiungere un adeguato grado d’integrazione di questi lavoratori e dei loro famigliari nel nostro territorio.

Premettendo che l’immigrazione è stata e sarà senza dubbio un “carburante” essenziale per la “locomotiva veneta”, va, secondo me, subito chiarito che ogni carburante va maneggiato con cura.

Quella che abbiamo davanti è una potenziale fucina di grandi progressi, non solo pratici ma anche culturale, ma perché queste potenzialità possano svilupparsi senza strozzature è necessario, anche se soltanto a livello regionale, attuare una politica su due piani paralleli: da un lato vanno promosse senza remore una serie d’iniziative, da decidere localmente, per favorire una sempre maggiore integrazione, dall’altra però, senza mai dimenticare che uno straniero (brutto termine) integrato non è affatto un pericolo ma una ricchezza, tale politica deve essere affiancata con pari valore da una politica di fermezza verso chi delinque e vive nella clandestinità, contribuendo così a creare un pericoloso senso d’insicurezza nei cittadini.

Solo così, solo incanalando nei giusti canali questo fenomeno potremmo evitare che scoppi in futuro una bomba di dimensioni mai viste, e saremmo in grado di trarre i vantaggi di questa situazione senza farcene travolgere.

Non guerre di religione o cultura quindi, ma integrazione controllata tra più culture.

Arrivato ora agli ultimi due punti elencati, vorrei cercare d’affrontarli, vista la loro stretta correlazione, in un'unica trattazione.

Nel panorama che, se pur in maniera manchevole, ho cercato di fotografare qui sopra, c’è ancora un elemento rimasto finora nell’ombra: l’abbassamento del livello di preparazione culturale e politica dei nostri giovani, abbassamento al quale fa riscontro una sempre maggiore penetrazione delle forze della destra neo fascista e populista a scapito delle formazioni democratiche e della nostra coalizione.

Fenomeno visibile soprattutto nei centri urbani, dove è meno viva la tradizione politica famigliare.

A questa realtà io credo, soprattutto a livello urbano, la nostra lista sia rimasta in parte estranea.

Se è vero infatti che tra le nuove generazioni è presente, se pur in forma piuttosto nebulosa ed indistinta, un grande fermento sociale, è altrettanto vero che non siamo riusciti, in questi pochi anni d’esistenza, a trovare in questo un adeguato spazio di manovra per il nostro movimento.

Spazio che ritengo possa essere conquistato utilizzando, passami il termine, un telaio basato sulla sempre più presente necessità d’un generale rinnovo morale del modo stesso di fare politica, nel quale sappiano trovare l’adeguato spazio le tematiche, sentite da tutti, ma dai giovani in particolare, giovani di tutte le provenienze ed estrazioni sociali, della pace e dell’opposizione alle politiche neo conservatrici ed ultra liberiste perseguite in queste anni dalle classi politiche al potere in vari paesi, politiche dove il profitto e non l’uomo e la sua libertà sono il fulcro attorno al quale tutto gira.

Affronto qui queste tematiche perché ritengo che proprio le caratteristiche cosmopolite, di confine e di crocevia tra est ed ovest delle nostra regione, siano un argomento in più per porle al centro d’una riflessione critica più ampia ed incentrata sulla nostra gioventù.

Gioventù che, come ogni altra compagine sociale, pur nella sua universalità, conosce profonde differenziazioni a seconda della realtà territoriali di riferimento.

Fatto questo che deve spingerci a diversificare le nostre iniziative adattandole alle specificità del territorio nel quali siamo chiamati ad operare, con una particolare attenzione alle realtà urbane dove, le ultime elezioni lo dimostrano, siamo più deboli.


Daniele Scanferla - Referente Quartiere 2 Padova Nord


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