Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Francoforte, giovedì 2 agosto 2012, ore 14.54, dichiarazione del Presidente della Bce, Mario (Draghi): «La Bce potrebbe varare altre misure di politica monetaria non standard, ma solo nelle prossime settimane verranno definite le modalità di intervento». In sostanza il Presidente rinvia un programma di azioni non standard a sostegno dell'euro come l'acquisto, sul mercato secondario, di titoli di stato dei Paesi più in difficoltà quali Spagna ed Italia.
Apriti cielo! I mercati reagiscono malissimo, le Borse virano in negativo con Milano che, in caduta libera del 4,6%, in poche ore brucia 14,2 miliardi di capitalizzazione e lo spread schizza a 507 punti base, da un minimo di 439 punti toccato solo poche ora prima. Per i Btp decennali il rendimento torna al 6,33%, altissimo.
Passano solo ventiquattro ore e il clima dei mercati cambia repentinamente. Milano, unitamente a tutte le altre piazze europee, rimbalza a +6,34% e il differenziale BTP/Bund scende fino a 464 punti con un tasso di rendimento al 6,04%. Incredibile. Nel giro di poche ore lo spread BTP/Bund decennali si è mosso segnando un’escursione di oltre 110 punti base! Se giovedì erano state esagerate le attese e le reazioni per le parole del Presidente Mario (Draghi), che non aveva annunciato, così come si aspettavano i mercati, misure urgenti a sostegno dei paesi in difficoltà, il prospettato acquisto sul mercato secondario di titoli di stato a breve, in particolare di Italia e Spagna, quale strategia a corto raggio a difesa dell’integrità dell’Euro, nel giro di poche ore agita gli operatori e i mercati e raffredda la speculazione che ormai da troppo tempo si accanisce su un’Europa che fatica a trovare un’unità di intenti a difesa della moneta unica.
La novità è che il Consiglio Direttivo di Eurotower, riconoscendo che gli spread attuali non riflettono i fondamentali ma ostacolano la trasmissione della politica monetaria, ha acconsentito - con una sola astensione, indovinate di chi? - alla Bce di agire a breve per ripristinare il giusto equilibrio tra i tassi dei Paesi membri. Si è finalmente convenuto che gli investitori ipotizzano che l’euro si frantumi e che i bond potrebbero quindi essere rimborsati in valute nazionali più forti al nord d’Europa, e più deboli al sud d’Europa. Da qui la penalizzazione, in spread, per i Paesi più fragili. Non è perciò un problema interno al singolo Paese ma esiste una quota supplementare di spread che va azzerata perché prodotta dall'idea che l'euro possa finire e rischia essa stessa di accelerarne la fine.
Paradossalmente al Presidente Mario (Draghi), con poche a parole, riesce quello che invece, con molta fatica, non riesce al Presidente Mario (Monti), indaffarato così com’è in decreti Salva Italia, Sviluppo Italia, Spending Review, Fiscal Compact, riforma delle Pensioni e riforma del Mercato del Lavoro (una mole di lavoro enorme!): riportare, nel più breve tempo possibile il valore dello spread BTP/Bund a volori più accettabili e sostenibili per l’economia del nostro Paese, così pesantemente gravato da un debito pubblico di quasi 2mila miliardi di euro (123% del Pil). E quanto è successo la dice lunga su quello che da tempo Mario (Monti) insiste nel dire: solo una strategia unica ed una volontà politica comune europea possono salvare l’euro dalla speculazione internazionale. Il discorso di Mario (Draghi) e le sue conseguenze sui mercati ne sono la prova.
Certo è che la nostra situazione è molto diversa da quella spagnola: non abbiamo subito la bolla immobiliare, non abbiamo un ingente debito estero, i conti dello Stato al netto degli interessi sono attivi (+3,6% nel 2012), e il mondo bancario, non è gravato da mutui irrecuperabili. Tutto ciò a dispetto delle agenzie di rating che, imperterrite, continuano a distribuire valutazioni a destra e a manca declassando, giusto venerdì 3 agosto, 15 banche italiane su 32 esaminate: fra queste Mps, Carige, Dexia e Popolare di Milano mentre confermano il loro standing Intesa Sanpaolo, Unicredit e Mediobanca. In sostanza, come più volte il Presidente Mario (Monti) dichiara con incisività alla stampa nazionale ed internazionale, ce la possiamo comunque fare e i mercati in questi giorni ci credono perché non tengono minimamente conto dei declassamenti operati.
Ce la possiamo fare se sapremo però indirizzare bene la nostra politica di risanamento interno. Certo non gravando ancora sul solito cittadino contribuente ormai già oberato da tasse, IMU, perdita del potere d’acquisto, mobilità e disoccupazione.
Perché, ad esempio non mettere mano agli oltre 3.000 enti inutili tra consorzi, società partecipate dallo Stato, dalle regioni, dai comuni e dalle province? Qualche esempio? L’ ”Istituto per le piante da legno e l’ambiente”, il “Centro piemontese di studi africani”, il “Centro internazionale del cavallo”, il “Centro di documentazione di storia della psichiatria”, l’ ”Ente autonomo fiera mostra dell’ascensione di Francavilla Fontana”, il “Consorzio per le applicazioni dei materiali plastici per i problemi di difesa della corrosione” e via dicendo. A questi si possono aggiungere gli ATO (Ambiti Territoriali Ottimali), che dovevano sparire nel 2010, i Bacini Imbriferi Montani, i Consorzi di Bonifica ancora in vita a ottant’anni dalla bonifica dell’Agro Pontino. Strutture tutte dotate di Cda, Presidente, Consiglieri e Revisori dei conti, le cui funzioni potrebbero essere invece svolte molto bene da Regioni, Province e Comuni. Il loro costo? La Corte dei Conti lo stima in 7 miliardi di euro l’anno, di cui 2,5 solo per i cda e gli amministratori.
Il Presidente Mario (Draghi) con due parole, in poche ore sposta miliardi di euro, in Italia Il Presidente Mario (Monti) per risparmiare qualche euro, si scontra con tempi biblici dovuti alla politica. La dimostrazione? Una su tutte: il “Consorzio obbligatorio per il nuovo ampliamento del porto e della zona industriale di Venezia-Marghera”, un ente di diritto pubblico istituito dallo Stato nel 1963 e posto in liquidazione nel 1995 è stato recentemente chiuso dopo ben 17 anni con un aggravio di un milione e mezzo di euro di spese, di cui oltre 757mila di parcella al Commissario(!).
Di questo passo, il Presidente Mario (Monti) ce la potrà mai fare?
Armando Della Bella
copyright © agosto 2012
Venerdì 12 giugno scorso è successo qualche cosa di più importante dell'elezione di un nuovo presidente della Repubblica Islamica dell'Iran.
Ormai tutto il mondo sa che Ahmadinejad è stato rieletto per la seconda volta, ma per fortuna sa anche che vi è un movimento riformista che è disposto a lottare e a protestare a favore del cambiamento nel paese. Infatti, la massiccia protesta di Teheran lo dimostra. Da ieri sera fino a questo momento sono scesi più di 2 milioni di persone per le strade della capitale dell'Iran.
Ma purtroppo la risposta repressiva del regime ha causato finora 7 morti e molti feriti. Proprio stamattina i famigerati Pasdaran, le guardia della Rivoluzione, hanno cominciato a sparare sulla folla nella Piazza Azadi (Libertà) al centro della città di Teheran.
Dopo trent'anni dalla rivoluzione teocratica di Khomeini il paese si trova diviso. Da una parte la società civile Iraniana composta per lo più da giovani. D'altra parte una gerarchia clericale degli ayatollah, un'elite altamente privilegiata. Ma la vittoria di Ahmadinejad "con il 63% dei voti" e la repressione delle proteste potrebbe essere l'inizio della "seconda rivoluzione". Ricordiamo che la prima rivoluzione è stata quella dell'eliminazione dello Scià nel 1979.
Nel 30° anniversario della Repubblica islamica, è la prima volta che l'esito delle elezioni costringe i cittadini a scendere in piazza senza paura contro gli intoccabili a difesa della legalità.
L'appuntamento più atteso dagli Iraniani è il prossimo 12 giugno, quando dovranno eleggere un nuovo presidente della Repubblica. I candidati sono quattro, compreso il presidente uscente Mahmud Ahmadinejad. Ma cerchiamo di conoscere chi sono gli altri tre contendenti.
Il primo è Mir Hussein Moussavi: già primo Ministro nei anni ottanta durante la sanguinosa guerra tra l'Iraq e Iran, viene considerato un riformista e appartiene al gruppo riformista di Khatami, ex presidente della Repubblica. Infatti, Khatami, che inizialmente aveva presentato la propria candidatura, si è ritirato sostenendo proprio Mir Hussein Moussavi. Anche se c'è molta perplessità sul fatto che il personaggio Moussavi possa portare un vero cambiamento sia sul fronte interno sia sul fronte internazionale, in quanto è un membro della vecchia guardia del regime. I
l secondo candidato è Mehdi Karoubi, ex presidente del Parlamento, nato 72 anni fa nella antica regione di Loristan. Durante i suoi studi religiosi presso la Facoltà di Teologia della Università di Teheran ha conosciuto l'Ayatollah Khomeini diventando uno dei suoi sostenitori nella rivoluzione Islamica 1979. Anche Karoubi viene considerato un riformatore pragmatico, spesso ha criticato il Consiglio Guardiani, organo supremo composto da 12 membri nominati per sei anni la cui funzione principale è quella di assicurare la compatibilità delle leggi con la Costituzione e con l'Islam.
Il terzo candidato è Mohsen Rezai, conservatore, già capo delle guardie della rivoluzione, i Pasdaran, per più di dieci anni. La candidatura di quest'ultimo viene invece considerata da tanti come una manovra di pura facciata. Dopo il confronto televisivo tra Ahmadinejad e Mir-Hossein Mousavi, uno dei due candidati riformisti alla presidenza dell'Iran - trasmesso dei due canali televisivi satellitari Iraniani IRIB e Shar - si è avuta la netta impressione che Ahmadinejad abbia vinto con netto vantaggio questo primo match.
Purtroppo Mousavi non è stato molto deciso nel contestare la politica estera di Ahmadinejad, che ha di fatto isolato l'Iran dalla Comunità Internazionale non solo sulla questione nucleare, ma anche sui diritti umani e la liberta di stampa. Mousavi non è riuscito ad incalzare Ahmadinejad sui diritti delle minoranze - come otto milioni di Curdi, quattro milioni di arabi in khuzestan - o sui diritti delle donne.
Come si dice, non si muove foglia che "Ayatollah Ali Khamenei " non voglia!!! L'Ayatollah Khamenei, largamente considerato il simbolo della classe dirigente conservatrice del Paese, è un sostenitore di Ahmadinejad e per questo motivo nè Mousavi nè Karrubi potranno portare l'Iran fuori da questa situazione.
La questione curda, per quanto ben caratterizzata e definita, non risulta del tutto comprensibile se astratta dal contesto nel quale si è sviluppata: quello della storia del Medioriente. Un legame che si è rinsaldato nello scorrere degli avvenimenti del secolo scorso: l'evoluzione dal sistema coloniale all'imperialismo moderno, la scoperta e lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi, le guerre mondiali, i conflitti locali e la «guerra fredda». Queste sono solo alcune delle problematiche che fanno sì che la questione curda si possa considerare assai vicina alle vicende della storia europea.
Negli ultimi 20 anni i partiti curdi hanno indirizzato i loro sforzi di lotta, sia armata sia politica, non più, soltanto, contro le potenze, contro i singoli regimi repressivi dell'Iran, della Turchia, della Siria e prima dell’Iraq. La lotta per l’indipendenza ha assunto i connotati propri delle lotte di liberazione in corso anche in altri paesi nel mondo, da parte delle minoranze oppresse. Ma questa affermazione è solo in apparenza semplice: in realtà spesso, per i curdi, è addirittura difficile individuare il proprio vero nemico, e questo dipende da numerosi fattori: ad esempio, il più delle volte, paesi lontani dal Curdistan, ma presenti sulla scena internazionale, formalmente approvano e sostenevano l'indipendenza dei curdi, ma in sostanza appoggiavano la politica repressiva dei singoli governi, spesso con aiuti economici ai vari regimi, nascondendo così le consuete dinamiche dell'imperialismo dietro un intervento indiretto ma ugualmente efficace.
II Curdistan esiste da almeno quattromila anni, abitato da una popolazione di stirpe indoeuropea, di religione originariamente zoroastriana convertitasi all'islam dopo la conquista araba; il popolo curdo ha vissuto fino al secolo scorso perfettamente integrato con le altre culture del Medio oriente. Alla fine della Prima guerra mondiale questo territorio è stato arbitrariamente suddiviso dalle potenze europee vincitrici che perseguivano i propri interessi coloniali nella regione: da allora la situazione è rimasta invariata e il popolo curdo combatte per riavere il diritto a vivere libero e in pace sulla propria terra.
Cerchiamo di chiarire ai lettori italiani, cosa vogliono i curdi. Il popolo curdo chiede che la minoranza curda venga riconosciuta dai governi negli stati nei quali risiede, chiede di potere fare uso della propria lingua, della propria tradizione, dalla propria scuola, ma soprattutto vuole la democratizzazione dei paesi che controllano il Kurdstar. Proprio questo è stato il punto che ha sempre determinato la brutale repressione da parte dei singoli governi che occupano il kurdistan nei confronti del popolo curdo.
La prima guerra del Golfo, nel 1991, aveva portato alla ribalta delle cronache le persecuzioni di cui sono stati, e sono tuttora oggetto, i curdi. È emerso palesemente l'aspetto tragico e terribile della loro esperienza, ma quello che ancora una volta era ed è sfuggito, e che continua a rimanere tuttora ai margini dell'informazione, è l'analisi attenta della loro storia e della loro cultura.
Sono una delle più importanti ed antiche civiltà dell'Oriente, eppure questa verità elementare e fondamentale resta spesso nell'ombra. Una "dimenticanza" dovuta, con tutta probabilità, almeno nel campo dei media, ad una "colta" ignoranza. Certo che il popolo curdo non può vantare gli uomini più ricchi del pianeta. Genericamente è indicata come una minoranza oppressa. Un luogo comune, come tanti altri, per spiegare lo smembramento del popolo curdo. È in questi luoghi comuni che si affossano ogni giorno le speranze di migliaia di uomini.
Spesso il sogno di vivere in un kurdistan libero e indipendente è finito sulle coste pugliesi e calabresi in Italia o in altri paesi europei, per i curdi in fuga dalla persecuzione provocata dei governi dell’Iran, della Turchia, della Siria e dell’Iraq prima dalla caduta del regime dittatoriale di Saddam.
La formazione di una diaspora curda in Europa è un fenomeno recente. Nel 1960, i curdi provenienti dalla Turchia hanno iniziato ad arrivare in Germania, Austria, Svizzera e Francia, come lavoratori immigrati nel quadro di contratti governativi e accordi in materia di lavoro degli immigrati. Ma dopo la rivoluzione islamica, in Iran, del 1979, il colpo di Stato in Turchia del 1980, il massacro perpetrato dal regime iracheno con l’operazione Anfal e la campagna, lanciata nel 1992, di evacuazione forzata e distruzione di villaggi curdi accoppiata con una politica di assassinio politico di élite da "squadroni della morte" e forze paramilitari, è aumentato l’esodo dei curdi verso l'Europa. Il gruppo più consistente (circa 650 mila) si trova in Germania, ma altre numerose comunità si trovano nei paesi dell’Unione Europea. In Italia si trovano circa due milla curdi, sparsi nel centro e nel nord Italia, per lo più con regolare permesso di lavoro.
Una domanda nasce spontana: fino a quando questo popolo deve subire questa ingiustizia?
Ora, il compito è quello di cercare gli strumenti idonei ad affrontare una situazione ormai insostenibile, dal punto di vista morale, per i paesi civili che vogliono farsi sostenitori dei diritti umani e dei popoli
Il 9 aprile di sette anni fa, una coalizione guidata dal Governo degli Stati Uniti d'America e del Regno Unito, con le loro colonne dell’esercito, entravano nella capitale Irachena Baghdad da diverse direttrici fino ad arrivare nella piazza Tharir, in pieno centro. Nella piazza c'era una grande statua del dittatore, statua che divenne poi simbolo della fine del tiranno che governava il paese mediorientale da 35 anni durante i quali i popoli dell'Iraq sono stati privati di tutto: della libertà di poter usufruire delle risorse nazionali per il proprio sviluppo, come il petrolio, ma anche dell'aria per respirare.
Saddam Hussein aveva trasformato l'Iraq in una enorme caserma. Le due guerre, prima quella con l'Iran e poi quella del Golfo, e dodici anni di embargo avevano prodotto un esodo massiccio di Iracheni all'estero e un milione di morti.
Ebbene, a fronte di tale situazione disastrosa, oggi, nel bene e nel male, i popoli dell'Iraq sono contenti del cambiamento, della rinata possibilità di libertà. Nonostante le autobombe ed i kamikaze, in questi cinque anni sono nati settanta nuovi partiti, la libertà di stampa ha prodotto un fiorire di giornali e di Tv locali e satellitari.
Tutto questo con Saddam non c'era e non era possibile. Anche dal punto di vista economico qualche cosa è cambiato: prima non si poteva pianificare nulla, adesso si possono fare progetti, pur piccoli per il futuro. E' stato avviato un processo politico, pur lento, verso la democrazia del Paese, è stata scritta, con la partecipazione di tutti i rappresentanti, la nuova Costituzione che si può definire unica sia nel mondo Arabo che nel mondo Islamico.
La nuova costituzione garantisce il diritto di tutte le etnie e tutte le confessioni religiose.
Con tutto ciò non possiamo dire che l'Iraq è pacificato, tutt'altro. Nei trascorsi cinque anni terroristi di Al-Qaeda come Abu Musab al-Zarqawi, prima di essere ucciso, avevano deciso di trasformare l’Iraq in una terra bruciata ed gli jihadisti provenienti sia del mondo Arabo che nel mondo Islamico, in primis dei paesi limitrofi come l’Iran, la Siria e la Turchia, continuano ancora oggi con le loro azioni destabilizzanti, ma, per fortuna, senza successo.
Nelle elezioni amministrative del marzo scorso in Turchia, il partito DTP (Partito della società democratica) è il primo patito nel Kurdistan della Turchia. Questa vittoria ha dato una grossa speranza ai 17 milioni di Curdi, che da quasi un secolo sono stati privati del diritto di avere una vita culturale propria e di usare la propria lingua.
Le elezioni di marzo sono coincise con le celebrazioni del Newroz, il capodanno curdo, e non solo: la festa di Newroz - che significa il nuovo giorno - è anche la festa di liberazione del popolo curdo da un tiranno come Zuhak.
Per la prima volta nel Kurdistan della Turchia sono scese in piazza massicciamente quasi due milioni di persone nella città di Diyarbikir (Amad) per dire e ribadire soprattutto la loro voglia di pace e dialogo con il popolo turco.
Il partito curdo Dtp non solo si conferma il primo partito, ma ottiene anche nuove province. Quattro sono state conquistate e strappate all'Akp, il partito di Erdogan. Ora il Dtp controlla oltre Diyarbakir (Amad), la capitale del Kurdistan della Turchia, Dersim, Batman, Siirt, Sirnak, Hakkari, Van e Igdir.
A Diyarbakir, Osman Baydemir, il sindaco uscente, è stato rieletto con il 66,5% dei consensi. Una vittoria schiacciante sul candidato dell'Akp che continuava a proclamare la vittoria ed era convinto di riprendere una delle città più grandi non solo in Kurdistan, ma anche in Turchia, ma si è fermato al 30,6%.
Due domande mi nascono spontanee:
1) Cosa faranno i generali guerrafondai della Turchia che hanno sempre represso qualsiasi tentativo di dialogo per risolvere la questione curda?
2) Troveranno un'accusa per mettere fuori legge il partito curdo DTP, come hanno fatto altre volte?
Nel 2005, dopo 38 anni, il ritiro israeliano da Gaza aveva dato la speranza che la pace tra i due popoli potesse finalmente diventare una realtà, anche se lo stesso Israele era consapevole che era impossibile dialogare con Hamas, che nel suo statuto non parla di uno Stato palestinese ma bensì della distruzione totale d'Israele.
E' dal 1948 che questo popolo sfortunato, i Palestinesi, vengono sempre strumentalizzati dai Paesi della regione, in primis dai Paesi cosìdetti fratelli Arabi, che si sono sempre dichiarati paladini della questione palestinese, in realtà non hanno mai dato alcun appoggio, semmai hanno cercato di eliminarli.
Basti pensare al settembre nero, quando nel 1970 il Re hashemita Hussein di Giordania si mosse per reprimere un tentativo delle organizzazioni palestinesi di rovesciare la sua monarchia. L'attacco provocò pesanti perdite fra i civili palestinesi.
Il massacro al campo profughi di Tel al Zaatar, che conteneva 50000 profughi, fu compiuto dalla Siria nel 1976 e fu comandato dal generale baathista Hafez al Assad, che non aveva alcuna intenzione di assistere senza intervenire alla formazione di un governo arabo-palestinese fortemente aggressivo in un Paese come il Libano, che considerava parte integrante della propria sfera d'influenza.
Infatti, il primo giugno 1976 un corpo di spedizione, forte di ben diecimila soldati e duecentocinquanta blindati, passò la frontiera siro-libanese, il campo fu attaccato brutalmente, e gli assedianti impedirono l'ingresso nel campo di cibo e acqua e gli abitanti iniziarono a morire di fame e di sete.
Le posizioni assunte anche in questo momento dai Paesi arabi si comprendono alla luce dei contrasti e delle alleanze nel gioco della leadership nel mondo arabo.
Ora, una domanda mi sorge spontanea. Cosa vuole Hamas? La risposta potrebbe essere la guerra eterna. I bombardamenti israeliani in questi sette giorni hanno causato 470 morti, ma queste perdite dei civili innocenti sono sicuramente da attribuire ad Hamas.
Possiamo e dobbiamo essere critici con i metodi di bombardamenti deciso del governo isrealiano, ma si deve sempre partire dal presupposto che è stata Hamas a volere questo massacro. Hamas sa che per ogni missile al Qasam sparato sulle zone limitrofe e sui cittaddini civili Israeliani, Israele risponde con molti più missili. Quindi sono quelli di Hamas a volere la morte del loro popolo. Infatti, è straziante vedere i bimbi uccisi dai bombardamenti.
I dirigenti di Hamas devono sapere che l'unica strada percorribile è quella di pace e di dialogo diretto con lo Stato d'Israele e senza alcun intermediario.
Dopo oltre quindici anni di guerra civile è di nuovo il tessuto unitario del Libano che è messo a dura prova con il golpe di Hezbollah, che è stato e tuttora aiutato sia dalla Siria sia dall'Iran. Infatti, la terra Libanese si è trasformato in una terra di conflitto tra Stati Uniti d'America , Siria, l'Iran e gli Hezbollah.
Il governo Siriano non ha mai digerito il ritiro delle sue troppe del Libano che durava tre decenni. Da tempo molti paesi arabi, ed anche paesi non arabi, chiedono alla Siria di utilizzare la propria influenza in Libano per fare pressioni sugli Hezbollah di Hassan Nessrollah, con l’obiettivo di spingere quest’ultimo ad accettare le iniziative araba ed internazionali per risolvere la crisi libanese eleggendo un presidente per il Libano, costituendo un governo di unità nazionale e modificando la legge elettorale.
Da molti anni i vari gruppi politici e religiosi si accusano a vicenda di tradimento, di servire i paesi stranieri per destabilizzare il paese medio orientale. La situazione attuale in Libano non permette facili speranze. La crisi economica, sopratutto, attanaglia uno stato pesantemente indebitato. A livello politico è necessario responsabilizzare gli attuali partiti e gruppi politici del Libano perché prendano a cuore la pace del loro paese.
Come diceva uno dei maggiori intellettuali Libanesi Abdel Hamid Karamé: "Ogni comunità del Libano, quale che sia la sua importanza, rinunci definitivamente, e in parole, e per convenzione, all'idea di fare del Libano una patria per una sola comunità".
Ci è voluto poco perché una manifestazioni di protesta si trasformasse in una tragedia. La manifestazione che ha dato vita agli scontri era stata organizzata per protestare contro i tagli dell'elettricità: da Shiyah, il quartiere a maggioranza sciita dove era in corso la protesta, ieri sera gli scontri si sono estesi alla zona di Al Rihab, Qafaat, Mar Elias.
Tutto ha avuto inizio intorno alle 16 ora locale, quando alcune decine di dimostranti hanno bloccato la circolazione all'incrocio nei pressi della chiesa cristiano-maronita di Mar Mikhael, nel quartiere di Shiyah. I soldati sono intervenuti per disperdere i manifestanti, ma la situazione è rapidamente degenerata e ha avuto inizio la sparatoria. L'esercito ha operato numerosi arresti, ma - non appena si è diffusa la notizia che tra i morti c'era un militante di Amal, maggior gruppo sciita dopo Hizbollah - altre centinaia di giovani dimostranti hanno cominciato ad accorrere e i soldati hanno preferito ritirarsi dalla zona degli scontri.
Dicevamo che è bastato poco per far esplodere la tensione e la rabbia che il popolo libanese ha accumulato in questi mesi nei confronti dei partiti politici che hanno portato il paese in una crisi politica ed istituzionale profonda, che non sarà risolta a breve termine. La ragione principale sta nel fatto che l'elezione del presidente libanese non è una questione esclusivamente libanese. Numerose potenze estere vogliono dire la loro, in primis la Siria, poiché quest'ultima guarda agli sviluppi in Libano come ad una questione di vita o di morte.
A torto o a ragione, la Siria sente la necessità di esercitare il proprio potere di veto nella scelta del presidente libanese. Sicuramente giungere ad un accordo fra i partiti e le confessioni religiose non è un compito facile, e richiederà probabilmente ancora del tempo. Il segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa, ha dato fondo a tutte le sue energie nel tentativo di mediare tra le fazioni libanesi rivali ed i loro sostenitori esterni, finora senza successo.
Queste potenze esterne includono paesi rivali come l'Arabia Saudita e l'Iran, ma anche l'Egitto, la Francia, gli Stati Uniti, e perfino Israele (che opera attraverso gli Stati Uniti). In ogni caso, nel contesto libanese, il più importante di questi attori esterni è la Siria.
Si dice a Damasco che il presidente Bashar al-Assad avrebbe chiesto ad Amr Moussa di recarsi a Riyadh al fine di trasmettere un messaggio di riconciliazione al re Abdallah dell'Arabia Saudita. Secondo alcune fonti, il presidente al-Assad avrebbe anche affermato che non farà un passo senza essersi assicurato in precedenza l'appoggio saudita. Se queste voci fossero confermate, potrebbero essere indice di una distensione nei rapporti interarabi - e dunque della speranza di una soluzione in Libano.
Al-Assad, partecipando al vertice arabo di Riyadh nel marzo del 2007, aveva discusso a lungo con il re Abdallah. Il Libano era stato l'argomento principale allora, così come lo è adesso. Una distensione fra Damasco e Riyadh è assolutamente necessaria, poiché l'attuale freddezza, che rasenta l'ostilità, è uno dei principali impedimenti al raggiungimento di un compromesso libanese.
Il ricordo della guerra civile che sconvolse il Libano e che durò più di 15 anni è ancora vivo nella mente della popolazione, che ha paura di un'altra guerra settaria. Anche la chiesa cattolico-maronita libanese ha chiesto dal canto suo la convocazione urgente del Consiglio di Sicurezza dall'Onu per scongiurare un "bagno di sangue".
Quasi tre anni fa, i Libanesi credevano fosse finalmente giunta l'ora della pace: con il ritiro delle truppe siriane, nell'aprile 2005, il Paese si sbarazzò di una tutela a dir poco invadente, o almeno questo era ciò che si pensava. I suoi dirigenti, apparentemente abbandonate le proprie velleità settarie, si dissero pronti a costruire uno Stato di diritto. La speranza era immensa, tutto era deciso ed i Libanesi credettero che il peggio fosse passato.
Una reale ripresa del Libano non sembrerebbe possibile se non a condizione di una riforma strutturale interna ed una neutralizzazione dei fattori esterni, come l'Iran di Ahmadinejad e la Siria di Assad.
Caro On. D'Alema, nel suo recente viaggio in Turchia in un'intervista con emittente televisiva turca "Canal D" ha dato il suo appoggio al governo di Erdogan e in conseguenza ai generali Turchi che comandano la Turchia di scegliere l'opzione militare nei confronti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan della Turchia (PKK).
Lei On. D'Alema, nell'intervista - che è stata riportata sia dei giornali Italiani che della TV curde - ha detto testualmente "la Turchia ha il pieno diritto di avviare le limitate operazioni militari già approvate dal Parlamento dando l'assalto ai campi d'addestramento del Pkk e bombardandoli con aerei ed elicotteri".
On. D'Alema, la sua dichiarazione è molto grave, perché da il diritto a un paese come la Turchia, che continua a reprimere i 17 milioni di Curdi che vivono in quello Stato, di continuare con la sua politica sciovinista nei confronti della popolazione curda, e non solo della Turchia, ma anche nei confronti dei Curdi dell'Iraq, che hanno sempre cercato di mantenere buoni rapporti con la Turchia nonostante le continue minacce ricevute.
On. D'Alema, pochi giorni fa i suoi colleghi del Consiglio d'Europa hanno invitato i esponenti curdi della Turchia come l'ex sindaco di Sur, Abdullah Demirbas, e il sindaco di Diyarbakir, Osman Baydemir, che hanno descritto la pressione politica e la persecuzione giudiziaria a cui sindaci e consigli comunali della regione sono stati sottoposti da parte delle autorità.
Ecco, siamo sinceri, non ci aspettavamo questa sua posizione sia come uomo politico di un paese democratico, sia come presidente di un partito di sinistra, ma soprattutto come Ministro degli Esteri d'Italia.
|